venerdì 12 dicembre 2008

New Deal italiano

Un interessante articolo di Loris Campetti sul Manifesto di ieri.

Quando esplose la penultima crisi Fiat, nel 2002, e il destino dell’automobile italiana sembrava definitivamente compromesso, qualcuno - pochi, per la verità, tra cui questo giornale - propose l’ingresso dello stato nel capitale del Lingotto. Nessuno pensava alla nazionalizzazione della Fiat, ovviamente,ma a un intervento pubblico finalizzato al salvataggio e al rilancio in chiave occupazionale e ambientalista di un patrimonio industriale, culturale, umano, lavorativo; l’opposto dei classici contributi a perdere per la collettività, cioè per tutti tranne i responsabili del disastro. Fummo definiti pazzi, nostalgici, bolscevichi. Oggi Obama, che sicuramente non è pazzo e tanto meno bolscevico, sta facendo proprio questo, rivendica un ruolo di indirizzo pubblico sul sistema di mobilità agguantando due dei tre corni del problema: la riduzione e il miglioramento della qualità delle emissioni, privilegiando al tempo stesso i sistemi di trasporto collettivo rispetto all’automobile privata. Per questo il sostegno statale alla comatosa industria dell’auto nordamericana è legato al controllo pubblico del 20% del capitale. Vedremo come Obama intenderà affrontare il terzo nodo, quello dell’occupazione nel settore autoveicolistico. È difficile aumentare di due milioni gli occupati negli Usa chiudendo le fabbriche di automobili. Il problema non è l’intervento pubblico, che nelle crisi come nei momenti espansivi in Italia non èmai mancato, ma è sempre stato subalterno ai potentati economici, alla filosofia della socializzazione delle perdite e della privatizzazione degli utili. Con la stessa filosofia ci si è disfatti di una fetta consistente del patrimonio pubblico. In discussione è la qualità dell’intervento pubblico, l’abbiamo scritto più volte in questi giorni. Quale natura debba avere, quali finalità, quali vincoli ambientali e sociali. Dentro quale politica economica e industriale, dentro quale progetto di società futura debba inserirsi, in un contesto segnato dalla globalizzazione alla quale non si può rispondere con le ricette culturalmente reazionarie e populiste della coppia Tremonti-Berlusconi. Ieri la cronaca ci regalava due dati: nuovo crollo della produzione industriale e ulteriore esplosione della cassa integrazione,mentre per centinaia di migliaia di lavoratori «regolari» non esistono ammortizzatori sociali, per non parlare dell’esercito di precari rimandati a casa dalle aziende pubbliche e private.Nulla sarà più come prima, con l'urgenza dettata dal fatto che il futuro va costruito oggi, dentro la crisi forse peggiore che il capitalismo ricordi. Per questo è ora il tempo di discutere la qualità dell'intervento pubblico, che implica una diversa concezione del pubblico, dello stato, delle relazioni economiche e sociali. Prendiamo il caso della Fiat, che resta il più importante gruppo industriale italiano (si fa per dire). L'uomo che l'ha salvata, con la sua spregiudicata intelligenza accompagnata dal danaro pubblico e dai sacrifici operai, oggi dice che tra un anno, un anno e mezzo sopravviveranno soltanto 6 grandi multinazionali dell'automobile con dimensioni tali e capacità produttive così grandi che la Fiat non potrà far parte del coro. Salvo trovarsi uno o più alleati in grado di fare massa critica. In posizione di inferiorità, naturalmente, dato che a quella data sarà in grado di vendere meno di due milioni di vetture, un terzo del necessario per sopravvivere. Lo stato italiano, come tutti gli stati in cui si costruiscono automobili, dovrà decidere quanti soldi nostri investire per salvare un'azienda che, per sua stessa ammissione, non sarà più italiana e a dare gli ordini, a decidere gli investimenti sulla ricerca e l'innovazione di prodotto prima ancora che sulla produzione, sarà un padrone indiano, o francese, o tedesco. È difficile pensare che il governo Berlusconi - che crede di poter affrontare questa crisi devastante con le mance ai nullatenenti, gli appelli al consumo ai cassintegrati e la moratoria sulla qualità e quantità dei rifiuti tossici di questo modello di sviluppo - sia all'altezza della sfida di una società futura, attenta all'ambiente e al lavoro. Ma noi, le sinistre, chi dovrebbe fare opposizione in parlamento, chi cerca di farla nella società, vogliamo dire qualcosa? Vogliamo provare a riempire di contenuti un'ipotesi di nuovo modello di sviluppo, prima che delle merci, delle relazioni sociali e umane? Per restare terra terra, vogliamo dire che i soldi alla Fiat che Berlusconi non lesinerà dovranno essere vincolati alla difesa dell'occupazione e degli stabilimenti in Italia, e allo sviluppo della ricerca e dell'innovazione su nuovi propulsori meno energivori e meno inquinanti? Sarebbe una rivoluzione, in un paese che sta completando la distruzione del suo patrimonio culturale e scientifico, costringendo i suoi ricercatori a chiedere asilo politico all'estero. Domani c'è lo sciopero generale indetto da un solo sindacato confederale, la Cgil. Anche i sindacati di base e gli studenti dell'Onda chiamano alla mobilitazione e contribuiranno a vuotare fabbriche, uffici e scuole e a riempire le piazze. È un'occasione importante per legare la difesa del lavoro alla sua qualità. E alla sua finalità.

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